T'el see che a Milan... ?

Quando Milano era Piccadilly Circus: esplosione e tramonto delle insegne in Duomo

Dagli anni Sessanta in poi, Milano "era" la metropoli anche e sopratutto per le pubblicità in centro. Ma nel 2000 la sensazione sul decoro urbano, con forte pressioni, cambia radicalmente

Le insegne in Duomo (foto Aifilinforma.it)

Nell'immaginario comune, le luci pubblicitarie simbolo di megalopoli sono in Times Square o Piccadilly Circus. Ma in pochi ricordano che, fino all'inizio degli anni Novanta, come rumore al neon Milano aveva pochissimo da invidiare a New York o Londra. Le 'luminose' in Duomo - Jvc, Candy, Toshiba tanto per citare le più note, ma anche Kimbo o Popolare di Milano - destavano stupore e ammirazione tanto quanto la cattedrale per chi arrivava per la prima volta in città ("A Milano mi sembrò di sbarcare a New York: una città sfavillante di luci, piazza del Duomo sfolgorava di insegne pubblicitarie… ", disse Alberto Sordi, che per un breve periodo frequentò l'Accademia meneghina dei Filodrammatici).

Figlia del boom economico di fine anni Cinquanta, l'avanzata pubblicitaria a Milano fu inesorabile e potente come in poche altre città europee; qui c'erano le agenzie, le idee, le competenze e tutto ciò che, mutuato dagli Stati Uniti, poteva trasformare lo spazio pubblico, anche storico, in veicolo comunicativo efficace. Chi non ricorda, ne Il ragazzo di campagna, la carrellata di schermi che accoglie lo spaesato Renato Pozzetto?

Milano, il 26 dicembre 1883, fu la città che riuscì a illuminare il Teatro alla Scala per la prima volta con energia elettrica, in occasione della Prima de “La Gioconda”. L'energia proveniva dalla centrale Edison di Santa Radegonda. E questa lunga storia di illuminazione pubblica non poteva che tradursi in una cartellonistica interattiva, per quegli anni, fiorente. Così ricorda AifiIinforma

Anche Carlo Bertelli, uno dei massimi storici dell’arte italiana e soprintendente a Milano (dal 1978 al 1984), in un’intervista al Corriere della Sera del 2000, dichiarò: “Ci voleva una certa cultura per apprezzare la modernità delle scritte al neon in piazza Duomo… Si è perduto: un grande episodio della cultura moderna, qualcosa di terribilmente milanese che nessun’altra città aveva ed è un peccato aver abolito. Sarebbe bello se avessero il coraggio di rimetterle… Mi ricordo Palazzo Carminati e le sue insegne dall’ infanzia: l’ omino del Brill non c’ era più da tempo, ma era rimasta la dattilografa della Kores…”.

Nel 2000 tutto questo sparì. Fu la giunta guidata da Gabriele Albertini a indirizzare verso altri lidi i limiti del decoro urbano. Le architetture storiche vennero liberate dal caos consumistico, fino a qual momento complemento e non semplice rottura. La pubblicità a Milano, ora, inglesizzata al mare magnum dell'"outdoor", vive sulle grandi tavole che coprono i lavori in corso o le ristrutturazioni e costruzioni di edifici. O nelle fiammate estemporanee della guerilla marketing. Tutto a tempo. Tutto mordi e fuggi. Ancora su Aifilinforma: 

Secondo Giorgio Malagoli, vice sindaco di Milano in quegli anni, dall’esame del tessuto urbano era emersa con chiarezza la necessità di una riqualificazione degli spazi pubblici e monumentali della città, sia nel centro storico, sia nei luoghi più periferici. Con la posa della cartellonistica, le insegne pubblicitarie, le insegne dei negozi, dei chioschi e dei bar all’aperto si era acuito il cosidetto “Effetto Città”, che costituiva un fattore di disordine e sottrazione dello spazio pubblico all’uso dei cittadini. Da qui la decisione della Giunta Comunale di agire, dalle stesse parole di Giorgio Malagoli “… in ordine all’esigenza di esaltare il suolo strategico che Piazza del Duomo riveste per la città, simbolo di Milano, scenario di avvenimenti storici, artistici, spirituali e culturali”.

Oggi si dibatte sulla liceità o meno della scelta della Veneranda Fabbrica che con uno smartphone o dell'intimo femminile paga i lavori per le guglie. La Milano-Piccadilly di un tempo era, essa stessa, la pubblicità che sdoganava sui suoi palazzi. Uno spettacolo nello spettacolo, come tante cose, inesorabilmente chiuso. 


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