Coronavirus

Coronavirus, il virologo di Unimi: "Ora paradosso della prevenzione: persa percezione del rischio"

La riflessione di Fabrizio Pregliasco

In questa Fase 2 dell'emergenza coronavirus la voglia di tornare alla vita pre Covid e di dimenticare la quarantena è moltissima. Tanto da spingerci a sottovalutare il rischio. Si tratta del paradosso della prevenzione spiega il virologo dell’Università degli Studi di Milano Fabrizio Pregliasco: "Il forte desiderio e bisogno di normalità, è comprensibile ed è pericoloso".

Il coronavirus però, evidenzia Pregliasco, "ci ha già spiazzato in tanti modi, noi dobbiamo sempre prepararci allo scenario potenzialmente peggiore, per non farci fregare come è successo all’inizio. Dobbiamo prepararci ad evitare il peggio, perché il peggio non ci ricapiti”.

Fase 2 e rischi

“Bisogna valutare il margine di rischio che comunque c’è - dice ad Askanews il virologo -. Perché è ovvio che ogni contatto è un contatto in cui si rischia. C’è un aspetto tecnico da considerare, con tutte le misure di sicurezza che si devono mettere in atto. Dal distanziamento dei tavoli ad esempio, se si parla di bar e ristoranti, ai dispositivi di protezione, a tutto ciò che i diversi protocolli di sicurezza prevedono. E in ogni luogo di lavoro, il responsabile della sicurezza, l’Rspp dovrà fare una giusta strutturazione, perché in gran parte delle situazioni si possono trovare le modalità tecniche di sicurezza. È sempre una questione probabilistica, si può in ogni momento trovare soluzioni e abbassare il rischio, che ovviamente non esclude mai l’eccezionalità di un contagio. Come in Germania quando due colleghi della Webasto si sono passati il sale nella mensa”.

“Poi però - continua Pregliasco - dipende molto dalle responsabilità dei singoli. Bar, ristoranti o parrucchieri dal punto di vista tecnico si possono riaprire. Non possiamo dire no, non possiamo fermarci ma non dobbiamo abbassare il livello di attenzione. Invece è proprio quello che rischia di succedere, ed è normale. Accade sempre in qualsiasi nostra azione, ad esempio quando impariamo a guidare l’auto, all’inizio siamo molto più attenti, poi col tempo ce ne freghiamo perché ci si abitua al rischio. Il rischio più grande è l’allentamento dell’attenzione per l’abitudine al rischio, e non ci deve essere”.

La responsabilità, in definitiva deve essere dei singoli, sui Navigli come a Mondello. Perché, ovviamente, non è pensabile che ci sia "un poliziotto ad ogni angolo della strada - riflette il virologo -, non c’è altro che la responsabilità sociale di ognuno. Insistere con controlli e informazioni sì, per non far abbassare la guardia, ma fondamentale è la responsabilità”.

Cos'è il paradosso della prevenzione

Purtroppo però - fa notare Pregliasco - in questa fase dell’epidemia stiamo vedendo quello che si chiama “paradosso della prevenzione. Un po' come è successo con i vaccini. Il farmaco ti dà questa idea: stavo male e ora sto bene. Invece il vaccino non si prende il merito di tutta la sua azione preventiva. Quando c’era la poliomielite, tutti avevano paura della polio, la vaccinazione l’ha tolta, ora si è persa la paura della malattia e quindi si ritiene che il vaccino non serva. Quello che è successo coi No Vax, quando andavano di moda. E questo è successo con le misure di contenimento. Si è avuto lo stesso effetto di paradosso: le misure di contenimento hanno ottenuto dei risultati, prevenendo i contagi e si è persa la percezione del rischio. E così rischiamo nuove ondate”.

In particolare “gli assembramenti non sono innocenti, aumentano in maniera esponenziale la probabilità di rischio. Chi si accalca in spiaggia o sui muretti non è furbo, fa male potenzialmente a se stesso, ai suoi familiari, non solo agli estranei, alle persone a lui più vicine; poi anche a tutti gli altri, alla comunità in senso lato. Sarà certo fondamentale il monitoraggio e il tracciamento dei casi però l’assembramento ha un effetto moltiplicatorio e il rischio focolaio è esponenziale”. 

 “Sarebbe stato meglio fermarci, dal 18 fare le prime rivalutazioni, poi andare oltre. Il piano di ulteriori aperture dal primo di giugno sarebbe stato più tranquillo. Legittima la richiesta economico-sociale, ma dobbiamo saperlo: dobbiamo stare attenti, potremmo dover richiudere, quanto meno con degli stop diversificati sul territorio. Ogni attività che riapre è un rubinetto di contatti. Serve gradualità. Questa non è un Fase 2. È una fase 1.5, in realtà è una sperimentazione sul campo di quello che succede. Non c’è una precisione scientifica su cui contare: metto la gente ai tavolini al ristorante o al bar allora aumento di tot i contagi. C’è stata un’accelerazione, comprensibile ripeto, ma dal punto di vista epidemiologico il 18 è un po' presto anche perché da quella data si inizierà a capire l’impatto delle aperture iniziali, quelle dal 4 maggio. Quindi, siamo molto già all’arrembaggio. A meno che il virus non si adatti o non determini infezioni meno pesanti. Ma non lo sappiamo ancora”.


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